Giorgio Distefano
Fogli di pietra
Le sovrascritture di Giorgio Distefano
di Antonella Huber
Nelle deserte pietraie dei monti
troverai uno strano mercato:
vi puoi barattare il vortice della vita
con una beatitudine senza confini.
Milarepa
Per molti la vita all’inizio è un foglio bianco su cui disegnare lungo il tempo la traccia del proprio cammino. Per Giorgio Distefano la vita sembra piuttosto una geografia di segni già scritti, una mappa ereditata da decifrare e poi da riscrivere. Un procedere che non è aggiungere ma levare per farsi strada in un groviglio di segni incomprensibile.
È un mondo d’infanzia popolato da abili sarte a lasciargli in eredità il cartamodello Burda, che diventa, in maniera subliminale e prepotente, il traguardamento ottico di tutte le sue visioni. Ordito, drittofilo, cimosa e forbici sono parole familiari come gli strumenti per confezionare l’abito, quel piccolo e virtuosistico spazio costruito attorno alla persona, intimamente aderente al corpo.
C’è qualcosa di simbolico forse nel sapere che la fortuna dell’impero editoriale Burda, è Aenne Magdalene Lemminger stilista e sarta, che dopo la guerra obbliga il marito, Franz Burda, ex nazista stampatore di francobolli e di mappe militari, a pubblicare Favorit una rivista di moda, conosciuta dal 1950 con il fortunato nome di Burda Moden? O nel sapere che Aenne, perché ogni donna possa confezionare da sé la propria forma, alleghi alla rivista un cartamodello geniale, dove tutte le linee sono misure reali, registrate dal vero sugli abitanti di Offenburg, così da ottenere realistiche taglie?
Dettagli casuali che forse Distefano neppure conosce, tuttavia questo persistente riferimento del suo immaginario artistico svela contorni di vite a volte anche non sue.
Questi sfondi mostrano in partenza l’universalità ed i limiti della creazione: solo con un’azione lenta, paziente e meticolosa l’artista perviene alla forma, intercettata per un attimo dalla sua mente e subito fuggita, per farsi a lungo cercare in segni inquieti e variabili.
Nel fluire del tempo i geroglifici virtuosi di quelle trame subiscono per Distefano diverse metamorfosi. In Tailoring# si affannano a far riemergere volti e mani, corpi potenzialmente presenti ma straziati dal reticolo inclemente. In Aeolian assumono le sembianze di carte nautiche seguendo le emergenze di un arcipelago e le suggestioni legate al mito dell’isola. In Paperviews si sciolgono in atmosfere pittoriche di paesaggi crepuscolari mentre in Ex voto sono parte accessoria di trine barocche a ingentilire dettagli macabri impreziositi d’oro. Nei lavori più recenti le trame maturano concettualmente. Nel grande ciclo di Carte della sopravvivenza nel Mediterraneo si misurano con la mappa in senso stretto, muovendo dalle grandi geografie dei Musei Vaticani; ma qui le linee si sovrappongono, si confondono, paradossalmente si perdono, dando al viaggiatore, più che il conforto di una guida, tutta l’inquietudine del non ritorno. E poi ci sono Le cave dove le linee sulla carta perdono definitivamente il connotato di mappa e diventano gli indizi di oggetti nascosti, la geometria piana di solidi inespressi che il pittore estrae pazientemente, così prendono vita blocchi di pietra che si innalzano verso il cielo, scale astratte sfolgoranti di luce.
Se il Tao può essere interpretato come una risonanza che risiede nello spazio vuoto lasciato dagli oggetti solidi, capace di creare un disegno nel caos delle loro tracce, si può dire che il percorso artistico di Distefano sia “una via in cammino” attraverso una molteplicità di segni interiori, paesaggi forse ma via via sempre più astratti. La caratteristica del suo vagare tra i vuoti di quelle trame è una condizione di inappagabile desiderio che gli impone un cambiamento costante, un nomadismo inarrestabile, un vagare mistico come tra le “deserte pietraie” di Milarepa.
Mutazione più che stabilità, indeterminatezza più che certezza, un senso più barocco che razionale: tutto il contrario di una mappa dunque, ma un segno che cambia continuamente direzione, come sotto la spinta di una infaticabile macchina celibe.
Eppure quel groviglio di segni su cui l’artista si perde contiene davvero qualcosa di segreto, un messaggio cifrato, un codice antico che svela l’arcano della vita. Alla fine non si tratta di rappresentare le relazioni esistenti e visibili quanto piuttosto di creare nuove forme di senso, e con esse un nuovo e più autentico mondo. Questo è forse il senso più profondo di ogni inventore di mappe.
Geografie dell'anima
di Sergio Tossi
Geografie dell'Anima è la personale di Giorgio Distefano da Egg Visual Art a Livorno. Il titolo fa riferimento ai soggetti dei quadri di Distefano, perlopiù squarci di paesaggi, ex voto con simulacri di architetture, un autoritratto che è una indicazione di poetica, un sommario ed una dichiarazione d'intenti.
I luoghi sono quelli che gli hanno segnato la memoria e provocato uno sbalzo in quella che comunemente chiamiamo anima.
C'è naturalmente la Sicilia, il mare di Sicilia, il ragusano e Marettimo, ma anche una strabiliante inquadratura del lago di Lugano, persino una Firenze non da cartolina. Poi le cave, luogo simbolo della nascita del materiale da costruzione, per quell'architettura che sembra così tanto coinvolgerlo. Giorgio Distefano abitualmente usa come supporto per la pittura dei cartamodelli. I segni e le righe che restano presenti nel lavoro sembrano tracciare percorsi, costruire geometrie di cammini, ma lasciano anche intuire la presenza della razionalità, quasi a contrapporsi, a bilanciare il sentimento intrinseco a quelle immagini “troppo belle”. Ne viene fuori così un lavoro antiretorico, esteticamente ineccepibile ma totalmente originale. E' lo stile dell'artista che muta il gradevole in sublime. Provoca una sorta di catarsi dello sguardo e ci riconsegna geografie mutate.
Gli ex voto, piccole storie extra-religiose, che nella tradizione popolare portano in sé sacro e profano, punteggiano la mostra, ne acuiscono i significati ed i simbolismi. Lasciarsi coinvolgere è un obbligo per il visitatore : confrontare “le geografie” sarà inevitabilmente automatico.
La rosa dei Venti
di Francesca Maria Sensi
Giorgio Distefano dipinge a spatola su vecchi carta-modelli e trasforma, interpretandole, le linee di taglio-e-cucito impresse nelle carte di Burda: una ricerca che coniuga la sua passione sartoriale con l'innata magistrale abilità di paesaggista. Il connubio è straniante. Rigide geometrie e libertà compositive convivono. Le linee premarcate e le tracce di venti invisibili sono surreali cartine meteorologiche e verosimili mappe iperbariche. L'artista è un uomo di mare che vive a terra: ama osservare le geografie del mondo con rispetto della storia, dove il fluire del tempo appare mistreriosamente rinascimentale e contemporaneo quando non futuribile. L'osservazione del suo paesaggio, circoscritto dalle linee già tracciate, gli permette vincoli e libertà pittorica, costringendolo ad una profonda ricerca personalissima e mai vista prima. Le pieghe, le asole, le sinusoide dei capospalla diventano soffi di direzione, vettori celesti, mistiche mappe geologiche, vie di fuga, punti cardinali e simbologie per non perdersi. Il vento è la sua musa ispiratrice: lo si respira più che vederlo. In mostra esposti dieci lavori inediti dedicati ai principali venti mediterranei e due tavole dedicate alla Rosa dei Venti. Un progetto ex-novo composto in un degradè tonale che interpreta le atmosfere dal freddo al caldo portate dai venti, provenienti dai quattro punti cardinali, secondo la nomenclatura classica dei venti mediterranei.
Scenari da “vestire” su misura
di Antonio D'Amico
Giorgio Distefano è un artista contemplativo che possiede la straordinaria capacità di vedere oltre il reale, valicando persino quei punti di riferimento preordinati che popolano il supporto sul quale dipinge, i cartamodelli Burda.
L’utilizzo del cartamodello corrisponde allo spolvero dei ricordi e alla ricerca di un punto fermo da fissare nella propria identità, infatti per Distefano ogni foglio conserva il profumo delle sue radici e la profondità degli occhi e dei gesti di sua nonna e di sua mamma, riportandolo così a quei momenti conviviali in cui dall’utilizzo preciso di quelle linee nascevano modelli e abiti su misura.
Memore di quella pratica sartoriale, con singolare visionarietà Giorgio Distefano si muove sicuro entro linee fisse e definite, prescindendo dai parametri abituali e prendendosi cura di esternare, con la forza del colore, i suoi paesaggi sognati, ovvero quegli scenari dell’anima nei quali si immerge a occhi aperti e dentro ai quali si sente sicuro. L’artista siciliano ma fiorentino d’adozione, ridefinisce nuove forme e inedite figure che si animano entro uno spazio altrimenti segnato e destinato a dar vita a modelli da vestire, proprio come lo sono i suoi habitat immaginati o direttamente vissuti. Ogni luogo, così come ogni abito, è per Distefano un pensiero su misura, voluto, scelto e indossato, ma anche impreziosito, il più delle volte, dalla patina rilucente dell’oro che ne evidenzia l’unicità!
Sono apparentemente confuse le linee che rimangono a popolare lo sfondo dei suoi paesaggi, come confusa e incerta lo è la vita e la quotidianità, tanto da indurlo a cercare nel silenzio atmosfere intime e recondite. Si assiste così a un ribaltamento dell’utilizzo del cartamodello, in quanto l’artista compie un gesto che annienta la razionalità e favorisce il cambiamento o, più propriamente, uno spirito d’adattamento che domina tutte quelle linee “direzionali” e gravita intorno a un profondo senso dell’equilibrio cromatico e a un armonico crescendo chiaroscurale che delinea marine, cave, archeologie industriali o vedute urbane. I suoi non sono colori squillanti, sono caldi e aciduli allo stesso tempo, sono penetranti e stesi con una pennellata placida e vibrante. Le opere di Giorgio Distefano corrispondono al desiderio recondito di risiedere nell’altrove, oltre la ragione, per trovare la pace dei sensi e ripopolare la mente di immagini oniriche.
Isola in luce. Appunti di viaggio
di Giusi Pizzo
Chiarore che si diffonde in un contesto di ombre, lichtung, direbbe Heidegger. Parola che ha la sua radice in licht (luminoso, radioso, lucente). Lichtung è, per il filosofo, la radura che delimita lo spazio su cui piove la luce obliqua e interrotta che penetra per gli alberi del bosco fattisi meno fitti. Qui, nella luminosità allusiva, si colloca l'Isola in luce di Giorgio Distefano. Nella breccia che rivela e nasconde ha inizio il mio viaggio.
I miei brevi appunti non vogliono essere un’analisi attraverso la sintassi e il linguaggio propri dell’arte pittorica, né pretendono di rendere chiaro l’oggetto risolvendolo e classificandolo. Rispondono, piuttosto, all’urgenza di tracciare i contorni emotivi del mio personale incontro con l’opera, una resa traduttiva articolata nella non fedele trama di rimandi ermeneutici di chi posa lo sguardo, mai puro o neutrale, su un prodotto artistico.
In fondo, se l’arte non apre mondi altri, se non scava nei recessi dell’interiorità, se non innesca richiami di senso in chi vi si accosta, non merita di essere chiamata tale.
L’arte è il paradosso di un viaggio finito e subito ripreso: come un brano di Mozart o una pagina di Marquez, un dipinto è un punto d’arrivo sofferto e concluso per l’Autore e, al contempo, la chiave che consente di spalancare infiniti orizzonti a chi ascolta, legge, guarda.
Il viaggio nell’isola in luce può riprendere tra i nebbiosi contorni rosso-violacei di un Mediterraneo onirico, ponte tessuto di luce e ombra o da un meta-scorcio ibleo che trasuda azzurro dalle crepe del tempo o da un balcone sospeso davanti a cui si squaderna il riverbero grigio di una pozzanghera, dove luccica un accenno tremante di Città, dopo la pioggia.
Città vuol dire tetti, quartieri, architetture, finestre, muri cadenti, antenne, elementi del paesaggio urbano incastrati in un gioco esperto di forme e aporie visive, insolubili scenari su cui la luce cade implacabile, eppure mai violenta o foriera di mutamento.
Così Palermo, ferita aperta sulla tela dei giorni; così Catania, colta ai piedi di un’incombente e lacera modernità; e poi il cielo nero di Comiso sopra i segni del passaggio di esistenze e di quotidianità implorante; infine il paese natale, lì gettato da mani invisibili e in dormiveglia su un fondo opaco e inintelligibile, urlo mai emesso.
Il Nerocielo copre e racchiude, persino la luce, in una lotta perenne tra civiltà aggregante e decadenza degli spazi “umani”.
Il Nerocielo è accecante come il raggio solare che penetra dalle imposte di legno divelte e sprangate, per incuria e amnesia.
Il Nerocielo è omerica cecità, racconto e colloquio tra gli occhi e la teatralità di simboli che la cultura del Mediterraneo semina e mette in scena.
Una sosta sul terrazzo paterno, dalle finestre dorate dell’imbrunire, nell’angolo tondo della memoria, dove arrivi e partenze s’intrecciano e l’assenza non è mai perdersi e il cammino continua fuori città, verso Gulfi… o verso un approdo antico e nuovo, nella terra-casa dove le radici sono abbandono, ricerca, scoperta e ritorno, vicinanza all’origine, heimkunft.
Metafore di un esistere viandante, eppure immobile.
E per chi conserva nell’anima vie segrete di pienezza su cui vi-andare e ri-andare, il viaggio diviene, come scrive il poeta, “l’incontro soave delle cose ben note”.
Stati di luce. Di qua (e di là) dal faro.
di Teresa Lucia Cicciarella
Di qua dal faro è un testo del compianto Vincenzo Consolo, una silloge di saggi intorno alla Sicilia, la sua storia, le sue voci. Il titolo viene richiamato un pomeriggio, conversando con Giorgio Distefano e si palesa nella sua relatività, nell’ubiquità di un segno architettonico che è “macchina” necessaria e roccaforte al tempo stesso, riferimento per i naviganti e per gli abitanti della terraferma che ad esso si rivolgono.Tra cielo e mare, tra due diverse sponde, l’ipotetico faro – o, nella fattispecie trattata da Consolo, quello del porto di Messina – è margine di uno spazio più che reale, punto d’equilibrio che afferma eppur scongiura il rischio di alterità per l’una o l’altra parte, illuminando semmai il ritmo di un dialogo.Spazi, dialogo, equilibrio: il pensiero torna alle radici e chiarisce molti dei termini chiave del lavoro di Distefano, che da più di vent’anni ha oltrepassato il faro isolano per formarsi e sperimentarsi, eleggendo Firenze a nuovo centro d’attività.Il suo è un percorso che con coerenza si sviluppa e, nella costante attenzione per la materia della pittura, studia valori ottici e atmosfere luminose (stati di luce, ama definirli), individuandoli quali ricchezza particolare di un Paese che è amato, osservato e, quand’è raffigurato a diverse latitudini, giova della naturale lezione appresa da Distefano nella luce mediterranea dei monti Iblei. Luce che talora acceca, in squillante evidenza su ogni muro, ogni risalto metallico; luce che altre volte – come nella serie Nerocielo – impatta con un fondo divenuto plumbeo, nuda scenografia, dinanzi alla quale alle sole architetture spetta di rappresentare il gioco delle parti.Il risultato dello studio di Distefano, in questa pittura, combina armonicamente dato geografico e visione interiorizzata: un primo sguardo sembra afferrare, d’istinto, mute conversazioni tra le città e il cielo. Il pensiero, plastico, ne abbrevia e ricompone le linee e con semplicità guida la mano fino alla resa di uno scorcio urbano che si fa “ritratto” mentale ed emotivo al tempo stesso. Dal suo lavoro dunque scaturiscono composizioni mai sfrontate; le architetture – forme dell’ordinario nostro vivere – non escludono la presenza umana, giacché la contengono e riassumono, divenendo spazio d’esperienza e domani di ricordo, senso d’appartenenza ad un luogo.
Forme Rivelate
di Caterina Toschi
Il teatro. Questo il punto di partenza del suo percorso artistico, durante il quale Distefano lavora come scenografo e costumista esercitandosi a pensare lo spazio attraverso l’immaginazione. Nei numerosi spettacoli realizzati, l’artista modella le proprie quinte teatrali “vestendole” di maschere, costumi, oggetti, costruendo luoghi ai quali poter conferire il titolo di composizioni.
Dunque il teatro, ma anche la pittura. Distefano è sì scenografo di giorno, ma anche pittore di notte. Identità non rivelata per molti anni, che trova tuttavia incoraggiamento in un amico, Luca di Castri. L’artista racconta la difficoltà nel riuscire a definirsi ciò che intuisce di essere, ma che esita ad ammettere: un pittore. L’essere scenografo, o costumista, gli garantisce di produrre un’arte che sia opera di un gruppo, e dunque di partecipare a un risultato fondamentalmente di molti, non di uno solo; l’essere pittore comporta invece l’unicità, e l’imperativo di presentarsi dinanzi al pubblico nudo e solo con la propria opera. Passaggio complicato, dunque, che vede anche un tempo dell’abbandono, ma poi fortunatamente un ritorno, quello definitivo, e quindi la perdita di quel fastidioso imbarazzo nel presentarsi come artista.
E arriviamo a Capraia nel 2009, presso l’Ex Fornace Pasquinucci, e alla prima personale, il vero viaggio in completa solitudine di un pittore. In una collettiva sussiste sempre la speranza che i tanti possano deviare l’attenzione su un singolo; la personale richiede invece l’esposizione al pubblico in completa nudità, obbliga il protagonista a vivere la costante contraddizione tra il provare gratificazione per il protagonismo raggiunto e il percepire un possibile pericolo di messa in discussione di sé. Il talento di Distefano non lascia tuttavia spazio al dubbio, e anzi trasforma questa esperienza in stimolo: l’artista comprende, infatti, come la “messa in esposizione” di un quadro possa tradursi nella possibilità di vedere l’opera da altre angolature, e dunque, riprenderla, e forse ricominciarla in vista di un nuovo punto di arrivo. La mostra diventa quindi, nel percorso dell’artista, un momento fondamentale per “ascoltare” le proprie opere, una sorta di prova generale alla presenza del suo pubblico per testare la reale conclusione di un quadro. «È come un finire per ricominciare», commenta.
Distefano lavora principalmente a tempera e a olio, su tela o su tavola. Parte del processo creativo è anche la preparazione del supporto sul quale egli andrà a intervenire, e non stupisce da parte di uno scenografo. La tela, al pari della quinta teatrale, non può essere intesa come un contenitore vuoto da riempire, ma come parte integrante della composizione, necessita, dunque, di essere pazientemente preparata per accogliere il proprio spettacolo.
I soggetti. Così si racconta Distefano: «la mia pittura indaga la rappresentazione di stati di luce», è votata a quei momenti di passaggio e di dialogo, tra uomo e natura, nei quali ci troviamo a cogliere in una luce indecisa, al crepuscolo, la rievocazione di un ricordo, nell’accecante sole di mezzogiorno, magari troneggiante su una costa sicula, un senso di soddisfazione e di raggiunta serenità, e in un timido raggio, nel cielo terso di un mattino invernale, una piacevole malinconia. Il paesaggio e la veduta urbana sono dunque i soggetti privilegiati, dei quali l’artista realizza il ritratto, spesso privandolo della figura umana – come nel caso delle cinque opere esposte – arrivando alla completa fusione tra paesaggio, geometrie, architettura e luce.
Ma arriviamo a Tailoring. Il contatto quotidiano e la familiarità, acquisita da piccoli, con alcuni oggetti presenti nei luoghi del nostro vissuto giustificano e chiariscono la particolarità di questo progetto, da cui sono nate molte opere. La nonna e la madre dell’artista lavorano come sarte a casa, riempiendo l’intorno della sua infanzia con strumenti del mestiere quali fili, metri, provini, ma anche cartamodelli. Ed ecco il perché della scelta di quest’ultimo come supporto, ma non solo. La griglia, a esso sottesa, nasconde indicazioni precise, è in grado di direzionare il processo creativo, affascinando il bambino in un gioco nel quale il rispetto della regola, il rispetto rivolto all’autorevolezza della linea, consente di realizzare la magia, e quindi di raggiungere, e confezionare, il risultato sperato. Il creare si trasforma, dunque, in una “caccia”, una caccia alla ricerca della linea del progetto che indirizzi Distefano nella costruzione della forma. Per formalizzare l’opera, è quindi necessario che egli rispetti un percorso geometrico preesistente alla sua stessa mano, e una volta individuato, tra i tanti possibili sentieri della mappatura del supporto, lo incoraggi a emergere e a tradursi in opera d’arte.
I cinque lavori esposti sono dunque opere dalla natura “generosa”, votati signorilmente al rispetto per una forma latente, che, silenziosa nello spazio, ha atteso pazientemente di essere rivelata.